Da molto tempo (come sanno i lettori di questa rubrica
e di altre cose che scrivo) sono convinto che sia necessario
trovare un momento di pausa, nella continua rincorsa della
fretta, per cercare di capire dove si sta andando.
“Fermati e pensa” è un criterio di buon
senso, troppo spesso dimenticato, che permette di evitare
un’infinità di errori e di vicoli ciechi. Sembra una
perdita di tempo, ma è vero il contrario: la fretta
del poi è spesso la conseguenza della poca chiarezza
con cui ci si avventura in percorsi mal tracciati.
Ma un continuo accumulo di fatti, esperienze e situazioni
ci dice che non è più sufficiente. Occorre una
revisione profonda dei modi di pensare, progettare e agire.
Perché sulla strada del press’a poco e della fretta
immotivata si è andati troppo avanti. Non solo manca
la cartografia del “dove andiamo”, ma si sono perse
anche le mappe del “da dove veniamo” – e
soprattutto la nozione del “perché siamo qui e
che cosa ci stiamo a fare”.
Si fa un gran parlare di “nuovo” mentre cresce
con fastidiosa insistenza l’odore di stantio. Le presunte
novità ammuffiscono prima che si sia potuto capire che
cosa fossero e a che cosa dovessero servire. Le innovazioni
autentiche, quando ci sono, rischiano di annegare nella
palude del vecchio riciclato o del nuovo inutile e fasullo.
Sono evidenti da parecchio tempo i danni prodotti dal
circolo vizioso della fretta. C’erano vistosi disastri
quattro anni fa – quando erano apparse in questa rubrica
brevi osservazioni intitolate La gatta frettolosa
fa i gattini ricchi? Alcune di quelle gatte si sono trovate
in serie difficoltà con le loro cucciolate di gattini
ciechi. Qualcuna è scappata col maltolto. Altre hanno
ottenuto dalle frettolose speculazioni i mezzi per ributtarsi
in labili e discutibili avventure. Ma quella folle rincorsa ci ha tutti
impoveriti. Non solo di risorse, ma anche di idee e di valori.
Eppure la fretta imperversante non accenna a rallentare.
Continua l’affanno nel tentativo di rattoppare ciò che
si guasta perché mal concepito. O di inventare
“novità” che di nuovo hanno assai poco
– e soprattutto mancano di qualsiasi solida e durevole utilità.
Su quel percorso disordinato, che è diventato un
indecifrabile labirinto, si è continuato a girare come
topolini impazziti per troppo tempo e con troppi tortuosi
sbandamenti. Non basta più dire “ritroviamo le
basi” o “fermiamoci a pensare”. Prima di poter
guardare avanti, per tracciare una rotta che non sia una
cieca deriva nel gorgo delle correnti, occorre voltarsi indietro.
Dobbiamo capire perché stiamo navigando
nella nebbia. Riscoprire l’uso della memoria. Trovare gli
strumenti (più concettuali che tecnici) per capire
dove siamo, perché siamo arrivati lì e dove
vogliamo andare. Dobbiamo provare lo sgomento di accorgerci
che abbiamo perso le radici e che molte sperate
“innovazioni” si stanno rivelando rami secchi.
Perché senza quella momentanea sofferenza, senza una
voglia vera di capire e di ritrovare l’orientamento, la
perdita di identità può diventare irreversibile.
A proposito dell’internet... sei anni fa comparvero in
libreria, per la terza volta, alcune mie osservazioni
sull’argomento. In un libro che
parlava, più in generale, di comunicazione d’impresa.
Non ancora un intero volume... si trattava di una lunga sezione
(quasi un libro a parte) intitolata L’infanzia di un mondo
nuovo. Ne nacquero alcuni dibattiti che riguardavano la prima
parola. “Infanzia”? Qualcuno sosteneva che le cose
si muovessero molto velocemente, che si stesse arrivando con
ritmo “esponenziale” a una precaria
maturità. I fatti dimostrano che stavano vaneggiando.
Altri, con più credibilità e costrutto,
parlavano di adolescenza. Con i relativi brufoli,
disorientamenti e crisi di identità. Alla luce dei
fatti... sappiamo che si tratta, ancora oggi, di infanzia, o
tutt’al più di adolescenza – o forse di una
“fase di transizione”
di cui non è facile immaginare l’esito.
Può essere infantile, o adolescenziale, la fase di
sviluppo di qualcosa che ha trent’anni? Ovviamente si.
Le evoluzioni culturali hanno cicli variabili, spesso più
lunghi della vita di una persona o di poche generazioni.
Ma il mio dubbio, oggi, è sulla seconda parte di
quella definizione. Si tratta di un “mondo nuovo”?
Credo di aver sbagliato, come molti, nel credere che
l’evoluzione dei sistemi di informazione e comunicazione
potesse portare, in tempi relativamente brevi, a cambiamenti
più radicali di quelli che stiamo vivendo. Non
perché fossero ipotesi campate per aria o sviluppi
impossibili. Ma perché i percorsi sono, inevitabilmente,
tortuosi e turbolenti. E perché le resistenze dell’abitudine
sono più profonde di quello che sembrano.
Dicono che la televisione ha cinquant’anni. Non è
vero “in assoluto”. Sistemi per la trasmissione di
immagini erano stati concepiti nel diciannovesimo secolo. I
primi esperimenti di televisione risalgono al 1925 (a colori
nel 1929). Le prime trasmissioni erano state realizzate in
pratica nel 1939. Ma è vero che la diffusione della
televisione è cominciata dopo la fine della seconda
guerra mondiale – e che (dopo cinque anni di
sperimentazione) le trasmissioni regolari in Italia cominciarono
nel 1954 (nello stesso anno ci furono i primi collegamenti in
“eurovisione”).
(Su queste e altre discontinuità nello
sviluppo dei sistemi di informazione e comunicazione vedi la
“cronologia”
in appendice all’edizione online
di L’umanità dell’internet).
Da allora che cosa è cambiato? Poco. Rispetto alle
origini abbiamo avuto una “copertura”, da tempo
completa, del territorio nazionale. Abbiamo avuto
l’introduzione del colore, una limitata moltiplicazione dei
canali, una limitata possibilità di accedere “via
satellite” a emittenti straniere. In sostanza la
televisione è incredibilmente simile a quella che era
cinquant’anni fa – con alcuni preoccupanti, quanto evidenti,
fenomeni di involuzione e deterioramento. Siamo lontani da
quella trasformazione profonda, quella “televisione a
cinquecento canali”, che potrebbe darci uno strumento
molto diverso da ciò che abbiamo conosciuto finora. E,
nonostante le chiacchiere, non c’è alcuna indicazione
reale di un’evoluzione in quel senso.
La diffusione dei mezzi di comunicazione “in tempo
reale” e potenzialmente “globali” (a partire
dal “telegrafo senza fili” nel 1901 e dalla radio
nel 1920 – in Italia nel 1924) ha portato un cambiamento
profondo, di cui non abbiamo ancora imparato a capire del
tutto le conseguenze. Ma ci sono voluti più di
cinquant’anni perché raggiungesse una qualche
“maturità” (che per molti aspetti sembra una
preoccupante stasi, se non una precoce vecchiaia) .
Quanto all’internet... non voglio ritornare su ciò
che ho detto e scritto forse troppe volte. È evidente
che siamo in una fase di preoccupante involuzione – e non
è facile capire quale sia la via d’uscita. Credo e
spero che tutti quei guasti non possano distruggere le
radici, i veri valori della rete. Ma li annebbiano, li rendono
insensatamente difficili, li ingombrano con ogni sorta
di invasività, trappole, fastidi e malfunzionamenti.
È un fatto evidente, anche se trascurato, che la
cosiddetta “rete globale” raggiunge, press’a poco,
il cinque per cento dell’umanità. E che in un paese
come l’Italia, dove l’internet è accessibile a
“quasi tutti”, da due anni c’è un debole
afflusso di nuove persone online – come dimostrano anche i
dati riassunti nel numero precedente
di questa rubrica. In parte per i troppi fastidiosi ingombri e impicci
tecnici (che non si risolvono, ma anzi peggiorano, con la
“banda larga”). Ma
soprattutto per un problema culturale.
Ciò che la rete oggi offre non è interessante per
molte persone. Perché mancano risorse e servizi davvero
utili e funzionali. O perché, quando ci sono,
la “cultura dominante” non aiuta a capirne
il valore e l’utilità.
Mi sembra indispensabile (non solo nel mondo della
comunicazione, ma in ogni genere di attività)
“fare un passo indietro”. In due modi. Uno
generale. Per capire meglio le origini – e i percorsi
che ci hanno portato alla situazione di oggi. E così
tracciare linee più nitide e meno confuse per il
cammino da qui in avanti. L’altro, non meno importante,
in ciascuna situazione particolare – di ogni impresa,
organizzazione o persona. Per uscire dalla nebbia, ritrovare
le radici e l’identità, definire con più
chiarezza le intenzioni. Liberarci dal vortice
autodistruttivo della fretta e muoverci in avanti con
più convinzione e meno insicurezza.
Appena superato qualche scricchiolio iniziale... è
un esercizio interessante, spesso affascinante, tutt’altro
che sgradevole o noioso. Porta serenità e chiarezza.
E aiuta molto a tracciare con meno esitazioni, meno errori
e più determinazione la strada verso un
“nuovo” davvero utile e fertile. Non è vero
che “manca il tempo”. Il tempo che quel “passo
indietro” ci farà risparmiare nei “passi
avanti” successivi, oltre al grande miglioramento di
qualità, vale molto di più di quanto ci
può costare l’impegno nel capire meglio
in quale percorso siamo e dove vogliamo andare.